David Randall, il giornalista che ragionava sul “mestiere”
- Posted by Gianni Molinari
- On 23 Luglio 2021
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Nei giorni scorsi è morto David Randall.
Come tanti l’ho conosciuto attraverso la lettura dei suoi articoli su Internazionale e ancora di più attraverso il suo libro “Il giornalista quasi perfetto”.
Rimando all’editoriale sul numero di questa settimana che il direttore di Internazionale, Giovanni De Mauro, ha voluto dedicare a Randall e all’obituaries pubblicato dall‘Observer.
Insieme a “Manuale di linguaggio giornalistico” di Sergio Lepri, che ho studiato agli inizi della professione e che era dedicato alla scrittura e allo stile, “Il giornalista quasi perfetto” di Randall è il testo – forse perché letto in un’età matura – che più mi ha aiutato a capire alcune dinamiche, meglio ancora è stato maieutico rispetto a certi ragionamenti che facevo a spezzoni disarticolati permettendomi di trovare un filo e migliorandone la comprensione in un quadro più solido.
Le intuizioni di Randall ne “Il giornalista quasi perfetto” sono un’àncora in un’epoca dove le basi della professione sono minate dal voyerismo, dal culto della personalità in puro stile brezneviano, dai rapporti sporchi con le fonti, dal nullismo diffuso dalle cosiddette scuole di giornalismo e dai cosiddetti corsi di laurea in scienza della comunicazione (con quale rarissima eccezione, nell’un caso e nell’altro), dal tradimento dell’etica della professione, dalle carriere costruite a tavoli all’ombra di conventicole e partiti.
Voglio trascrivere cosa scriveva Randall sulla materia
Scrivendo e leggendo un numero sufficiente di articoli, ci si rende conto che in realtà esistono solo due tipi di giornalismo: quello buono e quello cattivo.
Il giornalismo cattivo è praticato da coloro che si affrettano a esprimere giudizi invece di scoprire le cose, che si preoccupano più di se stessi che del lettore, che scrivono tra le righe invece che dentro le righe, che scrivono e pensano in termini di formule, stereotipi e cliché, che considerano l’accuratezza un extra e l’esagerazione uno strumento; e che preferiscono la vaghezza alla precisione, il commento all’informazione e il cinismo agli ideali.
Il buon giornalismo è intelligente, divertente, affidabile dal punto di vista delle informazioni, correttamente inserito nel contesto, onesto nelle intenzioni e negli effetti, usa un linguaggio originale e non serve altra causa se non quella della verità. Qualunque sia il pubblico. Qualunque sia la cultura. Qualunque sia la lingua. In qualunque circostanza. Questo tipo di giornalismo potrebbe essere pubblicato ovunque, perché è universale in tutti i sensi della parola: quasi perfetto.
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