
Ma questa calata nei paesi dei pensatori professionisti ce la potremmo risparmiare?
- Posted by Gianni Molinari
- On 10 Agosto 2023
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È agosto e gli intellettuali prendono la residenza e la rappresentanza dei piccoli paesi (interni) del Mezzogiorno!
Aria buona, cibo ottimo e, soprattutto, gratis, ospitalità antica e amministratori disperati che pur di fare qualcosa prendono tutto: un palco, un festival, un convegno.
Più fumosi si è nell’eloquio e nella scenografia (però dopo diversi anni anche i paesani cominciano a capire che quell’odore non è rosmarino….) meglio è!
Fino agli inizi del terzo millennio ad agosto, in concomitanza con le feste patronali, nei paesi calavano (o rientravano, se si preferisce una lettura buonista) gli emigrati: all’arrivo le macchine era vuote, alla partenza piene.
Erano andati via braccati dalla fame negli anni ’60 e tornavano (negli anni ’70) agiati (quasi tutti) in posti dove almeno fino al 1980 la vita era quella contadina, grama e pure dura.
Portavano le mode, le belle auto, gli effetti speciali e – per noi ragazzi nel pieno della tempesta ormonale – le ragazze carine e soprattutto vestite a colori e senza baffi.
Ci dicevano che le nostre tradizioni facevano schifo, che il nostro dialetto era orribile: e noi ci abbiamo creduto e ci siamo vergognati cancellando tradizioni e dialetto.
Ci siamo vergognati per anni del nostro modo di parlare, delle processioni simbolo di arretratezza (bambini, ragazze, donne, Madonna o Santo, prete, sindaco, maresciallo dei carabinieri, banda e poi gli uomini), dei riti rupestri, delle ginestre, dei foulard (ma per noi erano fazzoletti) in testa alle donne anziane.
Ci siamo assegnati il ruolo di poveracci per compiacere la narrazione di chi viveva nelle periferie industriali di Milano e Torino e piantava il basilico e i pomodori (coperti dal cellophane) sui balconi ma trovava porte aperte per la serietà e la laboriosità.
Noi abbiamo cominciato a tendere la mano. A imitare (senza soldi). Comunque era visibile il nostro ritardo antropologico.
Noi eravamo i camerieri, dovevamo restare alla quinta elementare, massimo terza media.
E soprattutto, tra il 28 e 31 agosto dovevamo riempire le macchine di chi tornava nella civiltà.
Questo più o meno fino al 1980 quando il terremoto (e la Democrazia Cristiana e le Tv di Zio Silvio) ha portato i soldi (troppi) e le pensioni (molte di invalidità …..) così le estati si sono equilibrate….. (gli squilibri che si sono prodotti poi sono stati altri, ma una cosa alla volta).
Più di qualcuno ha cominciato a girare il mondo e ha cominciato a spiegare che la nostra era una civiltà almeno pari alle altre e che il nostro dialetto era una koiné di lingue da studiare e non sputare.
E piano piano ci siamo ripresi almeno l’identità: basta vedere la bellezza della partecipazione dei ragazzi alle nostre feste, le processioni, la ricerca della nostra piccola, ma grande, storia popolare.
Non ci siamo ripresi la demografia: i trend mondiali (pianura Vs montagna), l’ignominia dei politicanti (una per tutti le trasversali stradali che dovevano aprire le aree interne rimaste sulla carta… la Saurina… per esempio), il peso della marginalità culturale nella quale eravamo finiti hanno avviato un processo di spopolamento senza ritorno.
Oggi il tema sarebbe non come salvare tutti i comuni della montagna, ma scegliere chi salvare e come farlo.
Nel frattempo gli intellettuali – quelli che invece di fare la strada dritta, ne prendono dieci contorte per manifestare la propria esistenza – hanno cominciato a venire in mezzo alle nostre montagne (ad agosto) e a raccontare loro nella nostra dimensione o noi nella loro dimensione.
L’anno 1 del Covid, il 2020, il più grande di tutti i campioni del settore, Domenico De Masi, professore emerito di sociologia, cioè pensionato, ci ha magnificato con il “south working” : “Oggi si fa tutto stando dovunque, io stesso sto lavorando in questo momento standomene comodamente a Ravello e non a Roma”.
Il professore scriveva il libro sullo smart working standosene a Ravello (lo racconta lui), grandioso! Ha impazzato con questa grande idea nei salotti televisivi senza che nessuno gli chiedesse: “Scusi professore, ma Ravello …”
Chi se ne è andato dal Sud – ma questo De Masi fa finta di non capirlo perché proprio la casta alla quale appartiene e non risulta si sia mai dissociato ha massime responsabilità (vedasi intere filiere familiari e parafamiliari – commarelle e comparelli – negli atenei del Sud) – lo ha fatto sì perché non trovava lavoro buono ma anche perché l’«aria» è irrespirabile, perché non conta cosa sai fare, ma a chi appartieni, perché la vita civile è occupata dalle consorterie più variopinte.
Gli intellettuali calano nei paesi – un libro a caso in mano (messo sotto l’ascella, eviterei poi la consultazione…) – stupiti tra le stradine di questi paesi: scoprono il silenzio (anche perché non c’è quasi più nessuno), entrano nei bar cercando il capannello dove illuminare gli autoctoni (sempre più vecchi e molto poco interessati), meglio se possono farlo da un palco o anche un palchetto finanziato dal comune o da altro ente pubblico benefattore. Poi vanno via. E se ne riparlerà ad agosto 2024.
Per alcuni è diventata una professione.
Non manca il codazzo ossequiante (che ora mi insulterà, tc) che fa l’ola.
La gita solo ad agosto: quando le giornate si accorciano, il tempo peggiora, a volte nevica e bisogna aspettare il lavoro degli spazzaneve mentre l’energia è a singhiozzo, e non arrivano le forniture, l’intellettuale sta nella sua bella grande città saltella tra un cinema e un teatro, una presentazione o un reading.
E il paesello? Poi si vede.
Ma questo vale da settembre in poi. Ora ci sono palchi, palchetti e cene sotto la luna: si parla del futuro. Ma di chi?
Qui l’andamento demografico dei lucani.
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