Il lavoro e il non-lavoro dei 40enni
- Posted by Gianni Molinari
- On 1 Settembre 2017
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Ci vorrebbe una “visione” e un po’ di coraggio.
Per avere una “visione” ci vorrebbe una qualche struttura culturale costruita su uno studio vero (#nolaurearelesperienza o #trealprezzodidue). Il coraggio… beh quello ci starebbe quasi in automatico una volta capito l’andazzo.
Le pensioni.
Il governo ha capito che, con lo sfracelo della Grande Crisi, il ventennio delle favole berlusconiano e gli slogan renziani, c’è una condizione che non consentirà a una generazione quasi intera di avere una pensione dignitosa. Di qui la proposta dei cosiddetti 650 euro.
E’ la generazione – ha ammonito l’Inps – che lavorerà fino a 70 anni.
Quindi, volendo il problema della pensione per questi 40enni c’è ma ci sarebbe di più quello del lavoro.
Perché nel frattempo che arrivano a 70 anni e prendono posto nei giardinetti, questi baldi giovani tengono almeno altri 30 anni da impiegare a fare qualcosa. Volendo.
Certo vero lavoro significa vere riforme. Significa toccare il dogma del tempo indeterminato. Perché se l’intero sistema si basasse sui contratti a termine (con le solite eccezioni di poliziotti, soldati e magistrati) il mercato del lavoro sarebbe davvero mobile, il merito determinerebbe le scelte delle aziende, i salari sarebbero trattabili al rialzo e gli sfaticati e i furbetti capirebbero che il loro registro non è adeguato.
Se però i contratti a tempo determinato sono una piccolissima porzione destinata solo a tagliare il costo del lavoro, com’è ora, allora sono quello che sono: una bastarda forma di sfruttamento. Che alle aziende con la A maiuscola manco serve.
Ma anche sull’età lavorativa questo Paese discetta per dogmi.
Da un lato riconosciamo di vivere in una società invecchiata, dall’altro non capiamo che questa “società invecchiata” non è fatta dei vecchi del primo Novecento o del secondo Dopoguerra.
Massimo Livi Bacci lo spiega così identificando due fattori:
Il primo è ben noto, e riguarda l’accumulazione, il rinnovo e l’aggiornamento delle conoscenze. Formazione e apprendimento, un tempo rinchiusi nella prima fase del ciclo di vita, debordano sull’intero arco di questa, sia perché le società accrescono la loro complessità, sia perché le conoscenze acquisite divengono più rapidamente obsolete, sia perché si allunga il ciclo di vita.
Il secondo fattore è di natura diversa, e riguarda la variabilità delle condizioni di salute, di funzionalità e capacità delle persone, che aumenta rapidamente al crescere dell’età.
Quindi, ci troviamo a persone totalmente diverse. E allora – sintetizza il demografo – “Non sembra in astratto impossibile convincere la collettività che per ogni anno di vita guadagnato si debbano aggiungere sei mesi al percorso lavorativo”.
Con il grafico interattivo sull’aspettiva di vita nei paesi dell’Ocse si può divertire a ragionarci sopra.
E forse cominciare a ragionare che ai ragazzi dell’80 più della pensione (a cui è sempre molto utile pensare) occorre dare la possibilità di un vero lavoro.
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