Il lavoro dei vecchi non toglie il lavoro ai giovani, la lezione tedesca

Il lavoro dei vecchi non toglie il lavoro ai giovani, la lezione tedesca

  • Posted by Gianni Molinari
  • On 14 Luglio 2017
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A maggio 2017,  la Germania ha registrato il più alto livello di occupazione dalla Riunificazione – pari a 44,1 milioni di occupati – e un tasso di disoccupazione del 3,9% (4,3%  gli uomini e 3,4 % le donne!).

Contemporaneamente la Germania ha registrato il più alto tasso di occupazione (2016) delle persone tra 65 e 74 anni!

Vale la pena di indagare questi numeri, ricordando sempre che le performance sono il frutto di “sistemi paese” che possono essere di riferimento ma che non sono mai completamente confrontabili perché, pur in un ambito europeo con molte regole comuni, resta molta regolazione in mano agli stati e, soprattutto nel mercato del lavoro, ciò influisce pesantemente.

Guardando i dati pre-crisi (2006) e post-crisi (2016) la prima cosa che è evidente è che la Germania è uscita dalla crisi con un notevole aumento degli occupati 15-64, ma anche dei più giovani (15-24), pur se più modesto (2,2%) e un balzo degli occupati 65-74.

Cosa significa. La Germania anzitutto ha dovuto affrontare prima di altri il tema dell’invecchiamento della popolazione e si è misurata per tempo – nel 2002 – con una profonda riforma del mercato delle lavoro, il cosiddetto piano Hartz, la riforma dell’età pensionabile e il carattere meno vincolante dei contratti collettivi.

“Poco dopo l’introduzione delle riforme, il mercato del lavoro in Germania ha segnato un’inversione di tendenza: la disoccupazione ha cominciato a scendere, l’occupazione coperta da assicurazione ha ripreso ad aumentare e il mercato del lavoro tedesco si è rivelato straordinariamente resiliente durante la crisi economica e finanziaria del 2008/2009. Da allora, l’economia tedesca tira al punto che stanno crescendo le preoccupazioni circa gli squilibri economici in Europa” (Matthias Knuth, Istituto “Lavoro e qualifiche” dell’Università di Duisburg-Essen) .

Queste riforme si sono innestate in un sistema paese che ha al centro del suo interesse il mondo della produzione al quale conferisce un valore sociale primario.

Inoltre, la cancelliera Merkel con l’apertura dei confini agli immigrati provenienti dai Balcani (e il percorso di inserimenti nella società e nel mondo del lavoro – famosa la strisciata ai capi delle grandi aziende per le assunzioni) ha dato una svolta alla questione dell’invecchiamento: a fine 2015 – per la prima volta dopo 24 anni di continua crescita l’età media della popolazione totale è diminuite da 44 anni e 4 mesi di fine 2014 a 44 anni e 3 mesi di fine 2015. Il fenomeno riguarda solo la popolazione non tedesca, cioè gli immigrati. L’età media della popolazione tedesca è aumentata da 44 anni e 10 mesi a 45 anni alla fine del 2015.

Ciò introduce al tema del tempo del lavoro. Massimo Livi Bacci ne “Il pianeta stretto” (Il Mulino, 2015) dedica un capitolo “Vivere a lungo ha un costo” per spiegare che con l’allungamento della vita si allunga anche il tempo del lavoro (e non solo per la sostenibilità complessiva del sistema pensionistico): “Non sembra in astratto impossibile convincere la collettività che per ogni anno di vita guadagnato si debbano aggiungere sei mesi al percorso lavorativo”. Perchè – spiega – ci sono due fattori che hanno cambiato la prospettiva, rispetto al passato: “l’accumulazione, il rinnovo e l’aggiornamento delle conoscenze. Formazione e apprendimento, un tempo rinchiusi nella prima fase del ciclo di vita, debordano sull’intero arco di questa, sia perché le società accrescono la loro complessità, sia perché le conoscenze acquisite divengono più rapidamente obsolete, sia perché si allunga il ciclo di vita” e “la variabilità delle condizioni di salute, di funzionalità e capacità delle persone, che aumenta rapidamente al crescere dell’età”.

Basta guardarsi indietro e guardarsi in giro: quanto è diverso un 65enne di oggi rispetto a quello di 30 anni fa (ma anche 20 e dieci!)!

Ciò in una società che tende a un’età media di 90 anni, con un numero di centenari sempre maggiore; in Italia il 1 gennaio 2017 i residenti con 100 e più anni erano 17. 630 (14.719 donne!) e 723. 164 ultra 90enni, rende realistico in alcuni decenni l’obiettivo della pensione a 75 anni!

Una discussione inevitabile, né ideologicamente archiviabile perché – come chiosa Livi Bacci – “Si può dire che le società dei 100 anni debbano sviluppare una grande flessibilità nella distribuzione dei ruoli e delle funzioni secondo l’età. E c’è da attendersi che le società incapaci di sviluppare questa flessibilità accumuleranno gravi ritardi e inefficienze”.

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