Il lavoro è finito?

Il lavoro è finito?

Il lavoro è finito?

  • Posted by Gianni Molinari
  • On 30 Ottobre 2023
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Una cospicua pubblicistica si sta occupando da anni della “fine del lavoro” cioè per dirla on Jeremy Rifkin  (il suo libro è del 1995)

La rivoluzione tecnologica e informatica ha portato nel mondo del lavoro veri e propri sconvolgimenti caratterizzati dalla progressiva scomparsa dei vecchi “mestieri” e dalla crescente obsolescenza delle abilità e delle competenze acquisite dai lavoratori delle generazioni meno giovani.

Stiamo entrando nell’era della “fine del lavoro”: calcolatori e robot sostituiscono via via l’uomo in un numero crescente di settori produttivi, un fenomeno che non riusciranno ad arginare neppure le professioni emergenti e i nuovi mercati esteri.

Sul punto è aperto un ampio dibattito tra chi ritiene le tesi di Rifkin & co. (ma prima se ne era occupato Keynes) valide e propone di adeguare la società alla nuova realtà (anche il reddito di base per tutti, di cui è lontano parente il reddito di cittadinanza, è parte di questa discussione), e chi, invece, ritiene – mutuando l’antico e mai superato ragionamento di Joseph Schumpeter – e di molti economisti del nostro tempo con lui –  che con la “distruzione creatrice” molte aziende spariscono, altre ne nascono, e altre si rafforzano.

Nel frattempo, tuttavia, per molti il lavoro deve ancora cominciare. Sono gli inattivi, un fenomeno che in Italia assume dimensioni enormi e caratterizza negativamente il mercato del lavoro e lo farà sempre di più nei prossimi anni in rapporto anche al calo demografico.

Uno studio di Randstad Research, il  centro di ricerca del gruppo Randstad, che studia le trasformazioni del mercato del lavoro, si sofferma sugli “Inattivi: il lavoro non dichiarato, l’invecchiamento attivo, la sostenibilità al 2030 e al 2050.

Lo studio ripercorre anche molto agilmente tutta la questione sul rapporto tra i cambiamenti tecnologici e il mercato del lavoro.

La questione della partecipazione al mercato del lavoro – è scritto nel rapporto – si interseca con la sfida di come uscire dal circolo vizioso di bassa crescita e bassa produttività in cui si è trovata l’Italia negli ultimi trent’anni.

Poi introduce il tema della longevità e del ro

In tutti i paesi del mondo gli ultrasettantenni sono per la maggior parte inattivi perché pensionati, ma in alcuni paesi la partecipazione al mercato del lavoro degli anziani è significativa, anche perché i trattamenti pensionistici sono meno favorevoli. Al di là della partecipazione al mercato del lavoro, l’invecchiamento attivo si realizza, in altri paesi, in condizioni di salute,
partecipazione e coesione sociale nettamente migliori di quelle italiane. Il numero degli anziani ultrasettantenni italiani è destinato a crescere fortemente da qui al 2030 e al 2050 (oggi 10,5 milioni, 11,5 milioni nel 2030 e 15,4 milioni nel 2050), insieme al loro peso sulla popolazione totale.

Sulla partecipazione al mercato del lavoro degli ultrasettantenni mi sono in passato soffermato qui.

Il nodo italiano è sempre quello del tasso di attività (65,7% il totale: 74,8% gli uomini e 56,7% le donne)e la sua relazione con il calo demografico.

 

Secondo lo studio di Randstad Research, l’Italia nel 2030, con questi tassi di attività, perderà il 5,4% dei posti di lavoro e nel 2050, il 21,20% con un crollo nella classe demografica più importante quella da 45 a 54 anni.

Se, tuttavia, l’Italia avesse  i tassi di attività della Germania, nel 2030 avrebbe il 23,5% di occupati in più, se avesse quelli della media dell’Ue il 10,3% in più.

Nel 2050 la stessa simulazione, crollo demografico compreso, porterebbe un aumento (tassi Germania) del 2,3% e una flessione (tassi Ue) dell’8,4%

E come si amplia il tasso di attività, soprattutto quello delle donne?

La formazione, la formazione continua, i servizi alla famiglia, la mobilità, il lavoro che cambia in ragione dell’età delle persone.

 

 

 

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