Perché le pensioni restano un problema

Perché le pensioni restano un problema

  • Posted by Gianni Molinari
  • On 16 Gennaio 2020
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L’Istat ha comunicato (in sintesi) che

  • Nel 2018 sono stati spesi 293 miliardi di euro in prestazioni pensionistiche
  • Nel 2018, il numero di beneficiari resta stabile a 16 milioni rispetto al 2017
  • Ampia la disuguaglianza di reddito tra i pensionati: al quinto con redditi pensionistici più alti va il 42,4% della spesa complessiva.
  • Un pensionato su quattro percepisce un reddito lordo da pensione sopra i 2.000 euro.
  • Oltre un terzo dei pensionati vive in coppia senza figli (35,5%), poco più di un quarto da solo (27,4%).
  • Per quasi 7 milioni e 400mila famiglie con pensionati i trasferimenti pensionistici rappresentano più dei tre quarti del reddito familiare disponibile.
  • In calo i pensionati da lavoro che dichiarano di essere occupati(-21,3% rispetto al 2011).
  • Il peso relativo della spesa pensionistica sul Pil si attesta al 16,6%, valore appena più alto rispetto al 2017 (16,5%), segnando un’interruzione del trend decrescente osservato nel triennio precedente. Infatti, dopo l’aumento del rapporto tra spesa pensionistica e Pil indotto dalla forte contrazione dell’economia negli anni di crisi (con un picco del 17,0% nel 2014), l’andamento più favorevole della crescita e il dispiegamento degli effetti delle riforme sulla spesa hanno determinato una sua riduzione fino al minimo del 16,5% nel 2017.

Quindi, la spesa per le pensioni è cresciuta e crescerà ancora perché nel 2019 è stata applicata la cosiddetta Quota 100 che ha ampliato ulteriormente la platea dei pensionati.

Al di là dei discorsi sulla speranza di vita della popolazione (80,9 per gli uomini e 85,2 per le donne) che sono totalmente diversi dal momento in cui è nato il sistema pensionistico,  quello che rende meglio l’idea dell’insostenibilità dell’attuale situazione può essere compreso da questo grafico che mostra la quota di prodotto interno lordo.

L’Italia (nel 2015)  spendeva per le pensioni il doppio della media dei paesi Ocse (cioè il mondo sviluppato),  ed era con il 16,2 per cento il secondo paese dopo la Grecia (16,9%).

Sempre nel 2015 spendeva sei punti in più rispetto alla Germania e  2,2 punti in più della Francia, che pure si è accorta di avere un problema (questo articolo del New York Times racconta, al di là dell’aneddotica fatta vedere in Italia, le profonde differenze nel paese).

Naturalmente sei punti in più di pil alle pensioni significa meno soldi per altro e spiega meglio di ogni altra cosa la questione giovanile in Italia.

La questione delle pensioni non è tuttavia solo “ragionieristica”: più tempo al lavoro, più contributi (ridisegnando la contribuzione dei lavoratori che arrivano più tardi nel mondo del lavoro), ma è anche di organizzazione del lavoro.

Perché se in futuro, come sostengono molti demografi, l’età della pensione sarà di 72 anni, potrà esserlo solo se cambierà il mondo del lavoro e le aziende: perché non si può fare a 60 anni quello che si faceva a 25.

C’è spazio per una discussione non ideologica, vera e ispirata a grande pragmatismo. Perché questo è uno dei nodi per contrastare il declino.

 

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