South working, il sole colpisce duro

South working, il sole colpisce duro

  • Posted by Gianni Molinari
  • On 3 Settembre 2020
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A cavallo di Ferragosto – quando il sole batteva duro sull’Italia tramortita dal Covid-19 ma non tanto convinta di dover essere più scrupolosa nel rispetto delle regole igieniche – hanno cominciato a girare storie, numeri e ovviamente opinionisti sul “south working“, cioè lo spostamento dalle regioni del nord a quelle del Mezzogiorno di lavoratori che con la pandemia effettuano la loro prestazione lavorativa con il sistema dello smart working.

L’assunto è il seguente: tornati al Sud di fretta e furia durante il lockdown lavoratori e studenti hanno assaporato la possibilità di poter lavorare/studiare da casa. “La busta paga al Nord, il lavoro al Sud” ha sintetizzato mirabilmente il Corriere del Mezzogiorno introducendo quello che al momento, insuperato, è il massimo teorico del settore: l’evergreen Domenico De Masi, classe 1938, che ha proclamato come lui stesso sta“lavorando in questo momento standomene comodamente a Ravello e non a Roma“.

E in cosa consiste il lavoro del professore emerito di sociologia, quindi, pensionato, nella scrittura di un libro e su cosa: sullo smart working!

Si parla di Ravello, Amalfi, della Sicilia, del Cilento: si parla di mare. Sa molto più di vacanza che di working.

Certo – e c’è una ricca bibliografia, ben prima della fulminazione di De Masi & co. – sulla separazione tra sede di lavoro e prestazione di lavoro: il Covid-19 ha dato un colpo di acceleratore formidabile.

Ma una cosa è l’estate al mare con il pc (molti facendo finta di lavorare), un’altra è trasferirsi stabilmente: cambiare (e trovare) una casa, rinunciare all’offerta di servizi di una grande città, alla sanità del nord, all’offerta scolastica, all’amante, ecc.

Io mi immagino – perché ho amici che me lo hanno detto – una coppia di smart workers milanesi a Palinuro, luogo incantevole prescelto dagli Dei, a metà di ottobre. O l’influencer bolognese nella sua bellissima casa ricca di storia di Roccanova, mentre sorseggia l’impareggiabile Grottino di Graziano chiedersi dove fare il prossimo shooting e via dicendo.

La gente che è andata via dal Sud, è bene che ce lo diciamo una volta per tutte, è andata via soprattutto perché non trovava spazio, perché l’aria è fetida di un fetore che è il familismo amorale, le relazioni corte, la lotta alla meritocrazia, il giustificazionismo.

Chi è andato via non torna a lavorare a distanza, perché questo è “telelavoro”. Non torna perché sa bene che il lavoro si costruisce nelle comunità che si muovono insieme, discutono, litigano non nella solitudine di un panorama che dopo due mesi ha rotto pure le palle.

Nossignori, non è così che si salverà il Sud.

E’ vero il Covid può essere un’occasione irripetibile: la pandemia potrebbe cambiare la logica dello spazio, potrebbe sconvolge le relazioni, potrebbe ridare centralità alla perifericità.

Molta parte del Sud prima del Covid-19 era una terra destinata a un declino quasi inevitabile: da anni è in corso uno spopolamento inarrestabile, per molti Comuni è già scritta la parola fine, la composizione demografica è pesantemente sbilanciata verso l’età più matura.

Anche il patrimonio immobiliare è largamente inutilizzato: nei paesi sono tantissime le abitazioni vuote, di proprietà di persone che hanno scelto di vivere altri posti, spesso abitazione sono passate le seconde e terze generazioni in un quadro non chiaro di proprietà dovuto alla frammentazione imposta dalla passaggio ereditario.

Però non è di un’operazione bohemienne che c’è bisogno.

Bisogna portare i luoghi delle decisioni, della produzione, non i pc portatili.

Bisognerà far rinascere l’industria – che sfortunatamente per molti visionari non si spezzetta e si porta a casa – e il Sud ha tanto spazio (e tanti capannoni abbandonati) dove fare un’industria “attuale” non delocalizzazione per rubare contributi e sparire.

Intendiamo questo per “south working”? O è solo uno slogan per fare qualche comparsata in tv?

 

 

 

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