A chi devono ringraziare gli agricoltori italiani se sono cosi (?) in difficoltà?

A chi devono ringraziare gli agricoltori italiani se sono cosi (?) in difficoltà?

A chi devono ringraziare gli agricoltori italiani se sono cosi (?) in difficoltà?

  • Posted by Gianni Molinari
  • On 3 Febbraio 2024
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Può un settore essere messo in crisi così profonda quasi irreversibile, come dicono i leader della protesta dei trattori, dalla modifica di alcune norme europee e statali degli ultimi tempi?

Si, lo può. E’ possibile perché l’agricoltura è il settore più assistito di tutta l’economia. Una cosa che farebbe impallidire anche l’economia socialista dell’Urss. Che ha ragioni, naturalmente, ma fino a un certo punto.

Anzitutto giova ricordare che circa il 33% del bilancio dell’Ue finanzia la Pac, la politica agricola comunitaria: trattasi – milione di euro in più, milione di euro in meno – di qualcosa che si aggira intorno a 55 miliardi di euro all’anno.

Certo in passato – quando però l’Unione non era fatta da 27 stati – la quota arrivata all’80%, ma erano epoche diverse (e il numero dei paesi dell’Unione non arrivava a dieci).

La Pac, la politica agricola comunitaria, è nata per assicurare agli europei sfiniti dalla guerra l’abbondanza di prodotti agricoli (che negli anni ’50 era un miraggio) e la “giusta remunerazione” agli agricoltori: è finita nel dover gestire la sovrabbondanza per esempio del burro e del latte tanto che per non far produrre gli eccessi si paga.

Ma ha anche creato un mondo che ha talmente interiorizzato nella sua gestione la parte dei contributi vari tanto che le aziende ne sono diventati dipendenti e orientano le proprie decisioni produttive.

Poi sono arrivate le regole – molte e nella loro gestione di esasperato burocraticismo solo come una persona che vive nel grigiore di Rue de la Loi di Bruxelles può arrivare a ipotizzare – sulla qualità, la provenienza dei prodotti, l’uso dei concimi e via dicendo.

Un apparato che però impatta malissimo su strutture aziendali che hanno dimensioni molto piccole e per le quale ogni minimo cambiamento è anzitutto un dramma psicologico.

L’Italia ha anzitutto un problema di dimensioni: la superficie delle aziende agricole italiane è un settimo di quella delle aziende francesi e un sesto di quelle spagnole.

Però siamo gloriosamente avanti a Cipro e Malta!

La dimensione in un’agricoltura che non è più quella di sussistenza è determinante per la solidità e profittabilità delle aziende, la loro capacità di pianificare la produzione e di porsi sul mercato.

Una cosa è un’azienda di 11 ettari (l’Italia), un’altra è di 70 (la Francia), una cosa è comprare e impiegare una macchina agricola solo su 11 ettari, un’altra su 70. Così con le banche, con gli approvvigionamenti e i mercati di sbocco.

Tutto questo si ribalta sulla redditività. Ma non si può dire.

Si può sempre chiedere soldi pubblici e vivere di assistenza pur avendo capacità enormi (come dimostrano aree geografiche e settori slegati dall’assistenza).

Questo mantra dell’agricoltura in difficoltà che fa tanto Coldiretti, fa perdere di vista, invece, uno dei problemi più grandi per il settore agricolo nella competizione europea.

Perché nel supermercati anche italiani si trovano più arance spagnole che italiane? Perché importiamo l’olio? Perché dipendiamo dall’estero per i cereali (con sorprese incredibili da dove li compriamo!)?

Perché il nostro tratto distintivo pubblico è la chiacchiera.

Le arance. L’agricoltura ha un problema drammatico di costo del lavoro in rapporto – non alla Tunisia – ma alla Spagna: per questo mangiamo arance spagnole. Abbiamo affrontato la questione con il lavoro irregolare degli immigrati, salvo a scandalizzarci per quello che avveniva a Rosarno.

I cereali. “Il problema è il sottocosto dall’Ucraina” si sibila. E, invece, importiamo per valore e volume più dall’Ungheria malmostosa e dalla Francia. Venti anni fa la Russia era il secondo fornitore.

Compriamo dall’estero grani migliori dei nostri (che hanno poche proteine e non vanno granché bene per fare la pasta) e sono – molti – di gran lunga superiori come gli statunitensi che nel 2022 abbiamo comprato a 450 euro alla tonnellata, oltre oltre 100 euro in più della media totale.

L’olio. Per chi oggi si mette alla testa dei trattori il problema era – quando da anni l’Italia non soddisfa nemmeno il proprio fabbisogno  l’olio tunisino, con operazioni carogna quando si doveva aiutare quello stato nella morsa del terrorismo e dopo qualche anno si concede di più, con una disponibilità mai registrata, per evitare di far partire i migranti verso l’italico stivale!

Si guardava all’olio tunisino sempre con il solito mantra della scarsa qualità delle produzione (ma chi lo ha stabilito?) e non si è visto in Andalusia si sviluppavano distese di ulivi ben piantumati in modo che da fare la raccolta meccanica.

Noi abbiamo badato al paesaggio, la Coldiretti a blindare le piccole e piccolissime aziende, i vari governi a spendere soldi in promozioni inutili, le imprese intelligenti hanno portano sui mercati mondiali il migliore olio italiano in bottigliette a prezzi da gioielleria (sempre con grande successo, però quello lo si vede se si va in giro e non se si sta a bivaccare nei ristoranti romani)

Mentre i prodotti agricoli sui mercati mondiali patiscono e perdono quote, al contrario i prodotti alimentari conquistano spazi e macinano risultati.

Questo dovrebbe suggerire alcune innovazioni nella gestione delle aziende agricole e nel loro rapporto con i mercati-

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