
Il grande affare delle mascherine, dalla Cina a Tokelau con furore
- Posted by Gianni Molinari
- On 18 Marzo 2021
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Pubblicato sul Mattino del 17 marzo 2021
Alla fine del 2020, anno 1 dell’era Covid, quante mascherine abbiamo comprato?
Di quelle prodotte in Italia ci sono solo stime. Di quelle importate solide certezze offerte dai database dell’Istat.
E su queste ci soffermiamo. Ne abbiamo comprato nel mondo un oceano: 52 milioni di chili spendendo oltre tre miliardi di euro!
Detto così però questo numero non dice proprio niente. Ma se pensiamo che una mascherina chirurgica pesa mediamente intorno ai tre grammi riusciamo ad avere un numero più affascinante: 17,3 miliardi, nel 2020 abbiamo importato – più o meno – 17.360.259.333 mascherine chirurgiche.
Sarebbe 291 mascherine chirurgiche per ogni italiano. Neonati compresi.
Poi magari non sarà proprio esattamente cosi, perché spulciando la miniera delle statistiche del commercio estero dell’Istat si scopre che sì nel 2020 l’import di mascherine chirurgiche è aumentato di 17 volte rispetto al 2019 (passando da 180 milioni a 3,1 miliardi di euro), ma anche le esportazioni sono raddoppiate passando da 77 a 167 milioni, arguendo quindi che, in assenza di una significativo aumento (testimoniato appunto dai 17,3 miliardi di mascherine importate) della produzione autoctona (al di là dell’andrà tutto bene), ad andare all’estero siano state mascherine prodotte all’estero, passate dall’Italia e spedite in particolare Francia, Svizzera e Germania!
Alla fine, rifacendo qualche altro calcolo, le mascherine arrivate dall’estero e rimaste sul suolo e sulle facce nel Bel Paese sono state 248 per ciascun italiano (sempre neonati compresi)!
Piuttosto banale chiedersi da dove sono arrivate. Ovviamente dalla Cina: 186 per ciascun italiano. Totale 2,8 miliardi di euro, ossia il 90 per cento di tutte le mascherine importate.
E, stando ai ben informati del settore import-export dalla Cina, anche quel rimanente scarso dieci per cento sempre dalla Cina sarebbe arrivato, ma per vie traverse.
Esattamente come le mascherine riesportate dall’Italia, anche operatori dei paesi come Germania, Francia, Paesi Bassi e Regno Unito se le sarebbero procurate nelle fabbriche cinesi. Molte proprio nell’Hubei, la provincia nella cui capitale Wuhan tutto è cominciato, e le avrebbero piazzate al miglior offerente.
E siccome, tra febbraio e marzo in particolare, mascherine non se ne trovavano gli affari sono stati davvero molto interessanti.
Ma i cinesi – o gli importatori italiani – sono stati i migliori: le hanno piazzate a otto centesimi l’una, otto volte gli olandesi (un centesimo), quattro volte i tedeschi, i francesi (due centesimi) e i rumeni (questi ultimi che pure avrebbero qualche stabilimento che le produce).
Tanto, i cinesi, da far apparire modici gli inglesi che le hanno piazzate a tre centesimi l’una. Beninteso si tratta di prezzi ricavati sui totali denunciati alle dogane e registrati nei database dell’Istat. In questo panorama viene da chiedersi chi ha importato le mascherine vietnamite a meno di mezzo centesimo e soprattutto a quanto le ha poi rivendute.
Perché ovviamente si tratta di prezzi «Cif» (cost, insurance, freight), che comprendono il valore dei beni, le spese di trasporto e le attività assicurative tra la frontiera del Paese esportatore e la frontiera del Paese importatore.
Comunque le abbiamo cercate ovunque: e le abbiamo trovate, anche in piccoli quantitativi in 108 paesi.
L’anno prima, quando ne importavamo appena per 180 milioni, i nostri fornitori erano in 71 paesi.
Ci siamo presi anche 50 chili nei tre atolli corallini di Tokelau, un territorio autonomo neozelandese che riesce difficile da trovare sulla carta geografica quanto è minuscolo e affogato nell’oceano Pacifico giusto a metà strada tra l’Australia e l’America Latina.
Ci hanno fatto anche un prezzo onesto: due centesimi come i francesi e i tedeschi che stanno a qualche migliaio di chilometri più vicini. Altro che i 28 centesimi l’una dei poverissimi tagiki. Che però magari ce le hanno vendute con qualche prezioso insert.
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